29 dicembre 2022

"Le cose", D. H. Lawrence


"Le cose" (Things), racconto di D. H. Lawrence pubblicato nel 1928.
Traduzione di Andrea Ridolfi Testori.


LE COSE


Erano dei veri idealisti, e venivano dal New England. Ma parliamo di tanto tempo fa: prima della Guerra. Molti anni prima della Guerra si conobbero e si sposarono; lui un giovane del Connecticut, alto e dagli occhi vispi, e lei una giovane del Massachusetts, minuta, riservata, che dall'aspetto pareva una puritana. Entrambi avevano un po' di denaro; non molto, comunque. Messi insieme non arrivavano a guadagnare tremila dollari all'anno. Eppure, erano liberi. Liberi!

Ah – la libertà! Essere liberi di vivere la propria vita! Avere venticinque e ventisette anni, una coppia di veri idealisti con un condiviso amore per la bellezza e un'inclinazione per la "filosofia indiana" – ahi, il significato, signora Besant!1 – e un reddito poco sotto i tremila dollari all'anno! Ma cos'è il denaro? Tutto ciò che si può desiderare è vivere una vita piena e meravigliosa. In Europa, ovviamente, proprio alla sorgente d'ogni tradizione. Potrebbe forse essere possibile anche in America: nel New England, ad esempio. Ma a costo di perdersi un po' di “bellezza”. Alla vera bellezza serve molto tempo per maturare. Il barocco è bello solo a metà, e maturo solo a metà. No, il vero bocciolo d'argento, il vero, squisito bouquet dorato della bellezza affondava le proprie radici nel Rinascimento, e non in altri periodi più recenti e più superficiali.

E dunque i due idealisti, sposatisi a New Haven, partirono subito per Parigi: la Parigi dei bei tempi andati. Avevano un piccolo appartamento sul Boulevard Montparnasse, e divennero dei veri parigini: nel senso antico e grazioso, non nel senso moderno e volgare. Era lo sfavillio dei puri impressionisti, Monet e i suoi seguaci, il mondo visto in termini di pura luce, luce spezzata e luce integra. Delizioso! Delizioso! deliziose le notti, il fiume, le mattine nelle vecchie strade e tra le bancarelle di fiori e di libri, i pomeriggi su a Montmartre e alle Tuileries, le serate lungo i boulevard!

Entrambi dipingevano, ma non disperatamente. L'Arte non li dominava, e loro non dominavano l'Arte. Dipingevano, ecco tutto. Conobbero delle persone – brave persone, se possibile, anche se uno non poteva star lì a scegliere. Ed erano felici.

Eppure sembra che gli esseri umani debbano affondare i propri artigli in qualcosa. Per essere “liberi”, per vivere una “vita piena e meravigliosa”, si deve, ahimè! legarsi a qualcosa. Una “vita piena e meravigliosa” significa un saldo legame con qualcosa – perlomeno, così è per tutti gli idealisti – altrimenti sopravviene una certa noia; ondeggia nell'aria un qualcosa di sospeso, come ondeggiano cùpidi i rampicanti che crescono e si avviluppano, in cerca di qualcosa cui aggrapparsi, qualcosa sul quale inerpicarsi per raggiungere l'indispensabile sole. Se non trovano niente, i rampicanti possono solo strisciare lungo il terreno, soddisfatti solo a metà. Questa è la libertà – l'aggrapparsi al palo giusto. Tutti gli esseri umani sono dei rampicanti. Ma in special modo gli idealisti. Essi sono dei rampicanti, e hanno bisogno di aggrapparsi e inerpicarsi. E disprezzano gli uomini che sono semplici patate, o rape, o ceppi di legno.

I nostri idealisti erano spaventosamente felici, ma erano costantemente alla ricerca di qualcosa da afferrare. Da principio, Parigi era sufficiente. Esplorarono Parigi a fondo. E impararono il francese così bene fino a sentirsi quasi anch'essi francesi, tanto disinvolti divennero nel parlarlo.

E tuttavia, si sa, non si parla mai il francese con l'anima. Non si può fare. E benché sia davvero entusiasmante, all'inizio, parlare in francese con degli arguti francesi – e ti appaiono tanto più arguti di te – eppure, a lungo andare, non ti soddisfa. Il materialismo dei francesi, illimitatamente arguto, ti lascia freddo, in fondo, e dà una sensazione di aridità e di incompatibilità con la vera profondità del New England. Così si sentivano i nostri due idealisti.

Si allontanarono dalla Francia – ma con molta delicatezza. La Francia li aveva delusi. “L'abbiamo adorata, e vi abbiamo imparato molto. Ma dopo un po' di tempo, un bel po' – di fatto, molti anni – Parigi lascia delusi. Non ha affatto ciò che si può desiderare.”

“Ma Parigi non è la Francia.”

“No, forse no. La Francia è molto diversa da Parigi. E la Francia è deliziosa – davvero deliziosa. Ma a noi, benché la adoriamo, non dice granché.”

Così, quando venne la Guerra, gli idealisti si trasferirono in Italia. E adorarono l'Italia. La trovarono incantevole, e più intensa della Francia. Sembrava molto più vicina alla concezione della bellezza che si ha nel New England: qualcosa di puro, e pieno di empatia, privo del materialismo e del cinismo dei francesi. Ai due idealisti parve di respirare la loro aria, in Italia.

E in Italia, ben di più che a Parigi, sentirono di potersi entusiasmare con gli insegnamenti del Buddha. Entrarono nell'enfiato fiume delle moderne emozioni buddhiste, e lessero i libri, e praticarono la meditazione, e si prefissarono di eliminare dalle loro anime la cupidigia, il dolore, e l'afflizione. Non compresero – non ancora – che l'anelito del Buddha di liberarsi da dolore e afflizione è di per se stesso una forma di cupidigia. No, essi sognavano un mondo perfetto, dal quale tutta la cupidigia, e quasi tutto il dolore, e gran parte dell'afflizione fossero eliminati.

Ma l'America entrò in Guerra, e così i due idealisti dovettero aiutare. Lavorarono in ospedale. E benché la loro esperienza fece loro comprendere più che mai che cupidigia, dolore e afflizione dovrebbero essere eliminati dal mondo, tuttavia il buddhismo, o la teosofia, non emergevano trionfanti dalla lunga crisi. In un modo o nell'altro, da qualche parte, in qualche luogo dentro di loro, sentivano che cupidigia, dolore e afflizione non sarebbero mai stati eliminati, perché alla maggior parte delle persone non interessa eliminarli, né mai interesserà. I nostri idealisti erano troppo occidentali per poter pensare di abbandonare il mondo intero alla dannazione e salvare se stessi. Erano davvero troppo altruisti per potersi sedere sotto il fico sacro e raggiungere il Nirvana, solo loro due.

Eppure c'era dell'altro. Semplicemente non avevano abbastanza Sitzfleisch2 per sedersi sotto il fico sacro e raggiungere il Nirvana contemplando qualcosa, men che meno il loro ombelico. Se tutto il vasto mondo non poteva essere salvato, loro, personalmente, non erano molto propensi all'idea di essere gli unici a essere salvati. No, si sarebbero sentiti troppo soli. Venivano dal New England, quindi per loro era o tutto o niente. La cupidigia, il dolore e l'afflizione dovevano essere eliminati dal mondo intero, altrimenti a che poteva servire eliminarli da se stessi? Del tutto inutile! Avrebbe significato solo essere delle vittime.

E quindi – benché adorassero ancora la “filosofia indiana”, e s'intenerivano al pensarci: ebbene, tornando alla nostra metafora, il palo sul quale il verde e smanioso rampicante si era inerpicato fin quasi in cima si era rivelato del tutto marcio. Esso si spezzò, e il rampicante, cedendo, calò lentamente al suolo. Non vi fu alcuno scoppio, alcuno schianto. Il rampicante si resse al proprio stesso fogliame, per un po'. Ma infine cedette. Il fagiolo magico della “filosofia indiana” aveva ceduto prima che Giacomino l'avesse scalato fino in cima per raggiungere un altro mondo.

Cedettero con un lento fruscio fino a toccare nuovamente il suolo. Ma non gettarono grida di protesta. Erano nuovamente “delusi”. Ma non l'ammisero mai. La “filosofia indiana” li aveva delusi. Ma non si lamentavano mai. Anche tra loro non ne facevano parola. Ma erano delusi, vagamente ma profondamente delusi, ed entrambi lo sapevano. Ma la consapevolezza era tacita.

E avevano ancora così tanto, nelle loro vite. Avevano ancora l'Italia – la cara Italia. E avevano ancora la libertà, inestimabile tesoro. E avevano ancora così tanta “bellezza”. Della pienezza della loro vita non erano affatto sicuri. Avevano un bimbo piccolo, che amavano come i genitori dovrebbero amare i propri figli, ma si guardavano bene dall'attaccarsi a lui, dal costruire le proprie vite attorno a lui. No, no, loro dovevano avere le loro vite! Avevano ancora sufficiente forza mentale per saperlo.

Ma non erano più così giovani. I venticinque e ventisette anni erano divenuti trentacinque e trentasette. E benché avessero trascorso anni meravigliosi in Europa, e benché adorassero ancora l'Italia – cara Italia! – eppure: erano delusi. Avevano avuto molto: oh, molto davvero! E tuttavia, non avevano ancora avuto, non ancora, davvero, ciò che si aspettavano; l'Europa era deliziosa, ma era morta. Vivere in Europa significava vivere nel passato. E gli Europei, con tutto il loro fascino superficiale, non erano davvero affascinanti. Erano dei materialisti, non avevano una vera anima. Semplicemente non comprendevano le esigenze interiori dello spirito, poiché in loro le esigenze interiori erano morte; erano tutti dei sopravvissuti. Ecco, questa era la verità a proposito degli Europei: erano tutti dei sopravvissuti, e non avevano più nulla davanti a sé.

Era un altro fagiolo magico, un altro supporto ceduto sotto la verde vita del rampicante. E questa volta fu tanto agra. Perché il verde rampicante si era silenziosamente inerpicato su per il vecchio tronco d'Europa per oltre dieci anni, dieci anni immensamente importanti, gli anni della vera vita. I due idealisti avevano vissuto in Europa, vissuto sull'Europa e sullo stile di vita europeo e sulle cose europee come viticci in una vigna eterna.

Qui avevano creato la loro casa: una casa come mai ci si potrebbe creare in America. Il loro motto era stato “bellezza”. Avevano vissuto in affitto, negli ultimi quattro anni, al secondo piano di un vecchio palazzo sull'Arno, e lì avevano tutte le loro “cose”. E traevano una profonda soddisfazione dal loro appartamento: le alte, silenziose e antiche stanze con le finestre sul fiume, con sfavillanti e bruni pavimenti, e con stupendi mobili che gli idealisti avevano “raccolto”.

Sì, a loro insaputa le vite degli idealisti erano proseguite con indomita rapidità in una costante linea orizzontale. Erano divenuti inquieti e intrepidi cacciatori di “cose” per la loro casa. Mentre la loro anima si arrampicava verso il sole dell'antica cultura europea o dell'antica filosofia indiana, le loro passioni correvano in orizzontale, agguantando le “cose”. Certo, non compravano le cose tanto per fare, ma in nome della “bellezza”. Vedevano casa loro come un luogo interamente arredato da delizie, e non certo da “cose”. Valerie aveva delle tende invero deliziose alle finestre del lungo salotto che dava sul fiume: tende di un curioso materiale antico che aveva l'aspetto di seta finemente ricamata, splendidamente sfumata da vermiglio, arancio, oro e nero fino a divenire d'un lucore soffice e velato. Raramente Valerie entrava in salotto senza cadere mentalmente in ginocchio dinanzi alle tende. “Chartres” diceva. “Per me sono Chartres!” E Melville non si voltava mai a guardare la sua libreria veneziana del XVI secolo, con i suoi venti o trenta libri ben selezionati, senza sentire il midollo ribollire nelle ossa. Sancta sanctorum!

Il bimbo evitava silenziosamente, quasi sinistramente, ogni contatto brusco con questi antichi monumenti d'arredo, come se fossero stati delle tane di dormienti cobra, o la “cosa” più pericolosa in assoluto da toccare – l'Arca dell'Alleanza. La sua infantile meraviglia era muta, e fredda, e definitiva.

E tuttavia, una coppia di idealisti del New England non può certo vivere della mera gloria passata dei loro mobili. Almeno, questa coppia non poteva. Si abituarono alla meravigliosa credenza stile bolognese, si abituarono all'incantevole libreria veneziana, e ai libri, e alle tende e ai bronzi di Siena, e ai deliziosi sofà e tavolini e sedie che avevano “raccolto” a Parigi. Oh, raccoglievano cose sin dal primo giorno ch'erano approdati in Europa. E continuavano a farlo. È l'ultimo interesse che l'Europa può offrire a un forestiero: e anche a un autoctono, se è per questo.

Quando venivano degli ospiti, e restavano ammirati dalle stanze dei Melville, allora Valerie ed Erasmus sentivano di non aver vissuto invano: che stavano ancora vivendo. Ma nelle lunghe mattinate, quando Erasmus lavorava slegatamente sulla letteratura rinascimentale fiorentina, e Valerie si prendeva cura dell'appartamento; e nelle lunghe ore dopo pranzo; e nelle lunghe, solitamente assai fredde e opprimenti serate nell'antico palazzo: ecco allora che l'aura svaniva d'intorno i mobili, e le cose divenivano cose, ammassi di materia che lì stavano, o lì pendevano, ad infinitum, e non dicevano nulla; e Valerie ed Erasmus quasi le detestavano. Lo splendore della bellezza, come ogni altro splendore, muore se non lo si nutre. Gli idealisti amavano ancora le loro cose. Ma le avevano ottenute. E la triste verità è che le cose che splendono con fulgore mentre le insegui si raffreddano alquanto, dopo un anno o due. A meno che, ovviamente, le persone non te le invidino moltissimo, e i musei non si struggano per averle. E le “cose” dei Melville, benché molto belle, non lo erano abbastanza perché ciò accadesse.

Così lo splendore svanì da tutto, dall'Europa, dall'Italia – “gli Italiani sono così cari” – anche dal meraviglioso appartamento sull'Arno. “Ma perché... se lo avessi io, questo appartamento, mai e poi mai mi verrebbe voglia di uscire! È troppo delizioso e perfetto.” Sentire una tale frase, ovvio, significava pur qualcosa.

Eppure Valerie ed Erasmus uscivano; e uscivano perfino per fuggirne il suo petroso e antico silenzio, i suoi freddi pavimenti e la sua morta dignità. “Viviamo nel passato, sai, Dick” diceva Valerie a suo marito. Lei lo chiamava Dick.

Resistevano tetramente. A loro non piaceva arrendersi. A loro non piaceva ammettere che non si erano stufati. Da dodici anni, ormai, erano delle persone “libere”, che vivevano una vita “piena e meravigliosa”. E l'America da dodici anni era il loro anatema, Sodoma e Gomorra del materialismo industriale.

Non era facile ammettere di essersi “stufati”. Detestavano ammettere che volevano tornare indietro. Ma infine, riluttanti, decisero di andare, “per il bene del bambino”. “Non sopportiamo l'idea di lasciare l'Europa. Ma Peter è americano, per cui sarebbe meglio che vedesse l'America ora che è giovane.” I Melville avevano accento e modi interamente inglesi – o quasi: un po' di italiano e di francese qua e là.

Si lasciarono l'Europa alle spalle, ma portarono con sé tutto ciò che poterono. Diversi furgoni pieni, in realtà. Tutte quelle “cose”, così adorabili e insostituibili. E arrivarono tutti a New York: gli idealisti, il bambino, e quel gran carico d'Europa che si erano portati dietro.

Valerie aveva sognato un bell'appartamento, magari su Riverside Drive, dove non costava quanto a est della Fifth Avenue, e dove tutte le loro meravigliose cose sarebbero state incantevoli. Lei ed Erasmus si misero a cercar casa. Ma, ahimè! i loro redditi erano ben sotto i tremila dollari all'anno. Trovarono – beh, lo sanno tutti cosa trovarono. Due piccole stanze con angolo cottura, e non togliete nulla dalle valigie!

Il pezzo d'Europa che avevano strappato via andò a finire in un magazzino, a cinquanta dollari al mese. E loro se ne stavano seduti in due piccole stanze con angolo cottura, chiedendosi perché lo avessero fatto.

Erasmus, ovviamente, doveva trovarsi un lavoro. Questa era la spada di Damocle che entrambi facevano finta di non vedere. Ma era la strana, vaga minaccia che la Statua della Libertà aveva sempre fatto pendere su di loro: “E tu dovrai trovare un lavoro!” Erasmus aveva tutte le carte in regola, come si suol dire. Una carriera accademica per lui era ancora possibile. Aveva superato brillantemente gli esami, a Yale, e aveva continuato con le “ricerche” per tutto il tempo trascorso in Europa.

Ma sia lui che Valerie rabbrividivano. Una carriera accademica! Il mondo accademico! Il mondo accademico americano! Brividi su brividi! Rinunciare alla libertà, alla loro vita piena e meravigliosa? Giammai! Giammai! Il prossimo compleanno di Erasmus era il quarantesimo.

Le “cose” rimanevano in magazzino. Valerie andò a dar loro un'occhiata. Le costò un dollaro l'ora, e tremende strette al cuore. Le “cose”, quelle povere cose, avevano un aspetto trascurato e miserabile in quel magazzino.

Tuttavia, New York non era l'intera America. C'era il vasto e pulito West. E così i Melville si diressero a ovest, con Peter, ma senza le cose. Provarono a vivere con poco, tra le montagne. Ma fare tutti i lavori di casa divenne quasi un incubo. Le “cose” son tutte belle da guardare, ma gestirle è tremendo, anche quando sono bellissime. Essere schiavi di cose spaventevoli, tenere acceso il fuoco sotto le pentole, cucinare, lavare i piatti, portare l'acqua, e pulire i pavimenti: puro orrore della squallida anti-vita!

Nella capanna sulle montagne Valerie sognava Firenze, l'appartamento perduto: e la sua credenza in stile bolognese, e le sedie Luigi XV, e soprattutto le sue tende “Chartres”, chiuse nel magazzino di New York, al costo di cinquanta dollari al mese.

Un amico milionario giunse in soccorso, offrendo loro un cottage sulla costa californiana – la California! Dove la nuova anima nasce negli uomini. Con gioia gli idealisti si spostarono un po' più a ovest, aggrappandosi a nuovi bronconi di speranza.

E che alloggio trovarono! Il cottage del milionario era perfettamente attrezzato. Era forse quanto di meglio esistesse per evitare ogni fatica: riscaldamento e fornelli elettrici, una cucina smaltata di bianco e di perla, niente che sporcasse se non gli esseri umani stessi. In circa un'ora gli idealisti avevano terminato i lavori di casa. Erano “liberi” – liberi di ascoltare il grande Oceano Pacifico che sferzava le coste, e di percepire una nuova anima che riempiva i loro corpi.

Ahimè! il Pacifico sferzava le coste con crudele brutalità, pura forza bruta! E la nuova anima, anziché pervadere dolcemente i loro corpi, pareva strappare a morsi la vecchia anima dal corpo. Sentire d'essere sotto i colpi della più cieca e schiacciante forza bruta: sentire che la tua adorata anima da idealista ti viene strappata via a morsi, e sostituita da null'altro che irritazione: beh, non va bene abbastanza.

Dopo circa nove mesi gli idealisti lasciarono l'Ovest californiano. Era stata una grande esperienza: erano felici di averla vissuta. Ma alla fine dei conti l'Ovest non era il posto per loro, e loro lo sapevano. No, chi voleva l'anima nuova era meglio che se la prendesse. Loro, Valerie ed Erasmus Melville, volevano affinare ancora un po' l'anima vecchia. E, in ogni caso, non avevano percepito alcun influsso d'anima nuova mentre si trovavano sulle coste della California. Tutto il contrario.

Così, con una piccola falla nel loro capitale, fecero ritorno nel Massachusetts per andare a trovare i genitori di Valerie, portando con sé il bambino. I nonni accolsero con gioia il bimbo – povero ragazzo espatriato – e furono piuttosto freddi con Valerie, e davvero molto freddi con Erasmus. La madre di Valerie un giorno disse chiaramente a Valerie che Erasmus doveva trovarsi un lavoro, così che Valerie potesse vivere decentemente. Valerie ricordò altezzosamente alla madre lo stupendo appartamento sull'Arno, e le “meravigliose” cose nel magazzino di New York, e la vita “incantevole e soddisfacente” che lei ed Erasmus avevano vissuto. La madre di Valerie disse che non pensava che la vita di sua figlia sembrasse tanto incantevole, al momento: senza casa, con un marito fermo al palo a quarant'anni, un figlio da educare, un capitale in esaurimento: a lei sembrava l'opposto di incantevole. Lascia che Erasmus si prenda un posto in qualche università.

“Che posto? Quale università?” la interruppe Valerie.

“Quella si può trovare, considerando le conoscenze di tuo padre e i titoli di Erasmus”, replicò la madre di Valerie. “E potreste togliere tutte le cose di valore dal magazzino, e avere una casa davvero deliziosa, che qualsiasi americano sarebbe orgoglioso di visitare. Ora come ora, i tuoi mobili si mangiano i tuoi averi, e voi vivete negli anfratti come i topi, senza un luogo dove andare.”

Era verissimo. Valerie iniziò a struggersi per avere una casa, con le sue “cose”. Ovviamente avrebbe potuto vendere i mobili per una cospicua somma. Ma niente l'avrebbe persuasa a farlo. Tutto passava – le religioni, le culture, i continenti, e le speranze – ma Valerie non si sarebbe mai separata dalle “cose” che lei ed Erasmus avevano raccolto con tanta passione. Vi era inchiodata.

Ma lei ed Erasmus non rinunciavano ancora a quella libertà, quella vita piena e meravigliosa in cui tanto avevano creduto. Erasmus maledisse l'America. Non voleva guadagnarsi da vivere. Anelava l'Europa.

Lasciato il bambino sotto le cure dei genitori di Valerie, i due idealisti partirono ancora una volta per l'Europa. A New York pagarono due dollari e guardarono le loro “cose” per un'ora breve e agra. Viaggiarono in “classe studenti”, ossia la terza. Il loro reddito ammontava ora a meno di duemila dollari, anziché tremila. E andarono diretti a Parigi – l'economica Parigi.

Questa volta trovarono l'Europa un totale fallimento. “Siamo tornati come cani sul nostro vomito”, disse Erasmus; “ma nel frattempo il vomito è andato a male.” Si accorse che non sopportava l'Europa. Irritava ogni nervo del suo corpo. Odiava anche l'America. Ma l'America era perlomeno molto più bella a vedersi di questo continente triste e micragnoso; e che oltretutto non era neanche più economico com'era prima.

Valerie, con il cuore rivolto alle sue cose – si era davvero rovinata per tirarle fuori da quel magazzino, dove erano rimaste per tre anni, mangiandosi duemila dollari – scrisse a sua madre che pensava che Erasmus sarebbe tornato, se avesse potuto trovare un lavoro adatto in America. Erasmus, in uno stato di frustrazione prossimo alla furia e alla follia, girava per l'Italia come un poveraccio, con i polsini del cappotto logori, odiando tutto intensamente. E quando gli fu trovato un posto all'Università di Cleveland, per insegnare letteratura francese, italiana e spagnola, i suoi occhi si fecero più penetranti, e il suo lungo e bizzarro viso divenne più affilato e dalle fattezze d'un ratto per l'ira totale e attonita. Aveva quarant'anni, e il lavoro lo aveva raggiunto.

“Caro, credo che faresti meglio ad accettare. Non t'interessa più nulla dell'Europa. È morta e sepolta, come dici tu. Ci offrono una casa sui terreni dell'Università, e mia madre dice che c'è spazio per tutte le nostre cose. Penso che sarebbe meglio cablografare “Accetto”.”

La guardava torvo come un topo in trappola. Ci si poteva quasi aspettare di vedere i baffi da topo vibrare ai lati del naso appuntito.

“Devo mandare il cablogramma?” chiese lei.
“Mandalo!” sputò fuori lui.
E lei uscì e lo mandò.

Lui era un uomo diverso, più silenzioso, e assai meno irritabile. Si era tolto un peso. Era dentro la gabbia.

Ma quando vide le fornaci di Cleveland, vaste e simili alla più immensa delle foreste nere, con rosse e bianche cascate incandescenti di ribollente metallo, e uomini come piccoli gnomi, e rumori spaventosi, e le dimensioni gigantesche, disse a Valerie:
“Di' pure ciò che vuoi, Valerie, ma questo è quanto di più grande si possa vedere nel mondo moderno.”

E quando furono nella loro piccola casa al passo coi tempi, nel terreno di proprietà dell'Università di Cleveland, e che i loro miserandi detriti d'Europa – la credenza bolognese, la libreria veneziana, e la sedia vescovile di Ravenna, e i tavolini Luigi XV, le tende “Chartres”, le lampade di bronzo di Siena – furono tutti sistemati, e avessero tutti un aspetto perfettamente trascurato, e pertanto di grande impatto; e una volta che gli idealisti ebbero avuto in casa un bel po' di persone rimaste a bocca aperta, ed Erasmus ebbe dato mostra dei suoi più squisiti modi all'europea, ma invero ancora cordiali e americani, e Valerie era stata una vera signora – ma dopotutto “preferiamo l'America”; allora Erasmus disse, guardandola con i bizzarri e taglienti occhi da ratto:

“La maionese europea è discreta, ma è l'America che ci dà la cara vecchia aragosta – quando?”

“Sempre!” disse lei, con soddisfazione.

E lui la guardò di sottecchi. Lui era in gabbia: ma lì dentro era al sicuro. E lei, evidentemente, era infine la vera lei. Aveva avuto gli oggetti. Ma attorno al naso di lui vi era uno sguardo bizzarro, malvagio e accademico, di puro scetticismo. Ma a lui l'aragosta piaceva.

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Note:

1 Riferimento ad Annie Besant (1847–1933), attivista e saggista nota per le sue opere sull'esoterismo e per la sua vicinanza alla filosofia indiana. (N.D.T.)


2 Vocabolo di lingua tedesca che indica la capacità di rimanere pazientemente seduti a lungo, e in senso figurato il passare molto tempo nello svolgere un'attività noiosa o ripetitiva.

Nota storica e commento:
D. H. Lawrence (1885–1930) scrisse questo racconto nel maggio del 1927; fu poi pubblicato nel 1928 in due riprese: dapprima sulla rivista statunitense The Bookman nel numero di agosto del 1928, quando ancora Lawrence non ne aveva terminato la revisione, e infine nella revisione definitiva (completata nel settembre 1928) sull'inglese The Fortnightly Review nel numero di ottobre 1928.

Con tono sarcastico e sguardo irridente e critico, Lawrence presenta una vicenda umana di duplice e antitetica natura: la ricerca del significato della vita attraverso un presunto percorso di conoscenza umana e filosofica (ma quanto autentico?), contrapposta all'accumulazione di beni materiali, le "cose" del titolo, che divengono infine l'unico vero risultato delle esperienze dei protagonisti, costretti infine a piegarsi a uno stile di vita più conformista – anche se non del tutto controvoglia, come traspare dalle righe conclusive del racconto.

Vari i temi concomitanti che popolano questo breve scritto. L'uso del cognome Melville per i due protagonisti (con tanto di soprannome "Dick" dato da Valerie a Erasmus, chiaro rimando a Moby Dick) e dei riferimenti al New England – dove peraltro nell'Ottocento era nato il Trascendentalismo – richiamano i capitoli 10 e 11 dell'opera di Lawrence Studies in Classic American Literature (1923), entrambi su Herman Melville, con l'undicesimo specificamente dedicato proprio a Moby Dick. Altrettanto espliciti i richiami alla filosofia indiana, alla teosofia e ad Annie Besant, fondatrice della Società Teosofica e dell'Ordine della stella d'oriente: proprio Besant aveva identificato in suo figlio adottivo, Jiddu Krishnamurti (1895–1986), il futuro "maestro universale" (leggi: messia). Curiosamente lo stesso Krishnamurti viveva proprio in un cottage a Ojai in California, dove si era trasferito nel 1922: un altro elemento che ritroviamo nella vicenda dei coniugi Melville. È ovvio poi il punto di contatto tra l'autore e Firenze, giacché proprio in tale città nel luglio 1928 Lawrence dette alle stampe L'amante di Lady Chatterley, scritto tra l'ottobre del 1926 e il gennaio del 1928. La Francia, altra mèta dei vagabondaggi dei protagonisti del racconto, fu da Lawrence visitata nel 1924, e Parigi nello specifico nel 1929 (quindi dopo la pubblicazione di Le cose): con la Francia e i francesi lo scrittore aveva un rapporto altalenante, che miscelava odio e amore, come esplicitato in alcune sue lettere.

È opportuno rilevare che nel 1965 lo scrittore francese Georges Perec pubblicò Le cose (Les Choses), romanzo in cui si riscontrano numerose somiglianze con l'omonimo racconto di Lawrence sia nel tema che nella trama e nello stile. Non risulta però una comprovata relazione tra questi due scritti, né è certo che Perec abbia letto Lawrence, come evidenziato da David Bellos nella sua risposta al dubbio avanzato dallo scrittore danese Nikolaj Zeuthen, che ipotizzava appunto un collegamento tra le due opere.

Andrea Ridolfi Testori, 30 dicembre 2022

Bibliografia:
- David Bellos, Perec lecteur de Lawrence? Ou l'inverse?, Bulletin de l'Association Georges-Perec, 6 luglio 2010, pp. 21–22.
- "Things", in Paul Poplawski, D. H. Lawrence. A Reference Companion, Greenwood Press, 1996, pp. 397–399.

10 dicembre 2022

Breve storia di una foto misconosciuta

Breve storia di una foto misconosciuta

di: Andrea Ridolfi Testori

Si ringrazia l'amico Filippo Luti per la consulenza fornita per confermare l'identificazione dei giocatori in foto e Roberto Vinciguerra per aver indicato la data della partita cui la foto fa riferimento.
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Nelle varie pubblicazioni uscite nel corso degli anni sulla Fiorentina alla stagione 1929-30 è spesso associata una foto che raffigura, secondo le didascalie, "la prima formazione in maglia viola". Si tratta di una foto di squadra che ritrae undici giocatori sul campo di via Bellini, il terreno di gioco su cui la Fiorentina giocava prima che venisse edificato lo Stadio Giovanni Berta (l'attuale Artemio Franchi). Questa stessa foto, in varie versioni e in varie qualità, è stata ripresa più o meno universalmente con la medesima descrizione.

Il problema è che sia l'annata che la didascalia di quella foto sono sbagliate.

Un esempio di didascalia sbagliata
L'immagine, infatti, non può risalire all'annata 1929-30, poiché in essa compaiono dei giocatori che arrivarono alla società gigliata solamente nella stagione successiva, come ad esempio Renato Vignolini, Antonio Moretti e Andrea Kregar.
La didascalia è anch'essa sbagliata (qui a destra un esempio, su un libricino edito nel 1998), perché come primo giocatore da sinistra indica Sernagiotto, il portiere; nella foto è sì presente Sernagiotto, ma è il penultimo da sinistra, come si può notare anche dalla divisa che indossa. La didascalia riportata cita semplicemente una formazione tipo della Fiorentina del 1929-30, ma non è assolutamente una descrizione dei giocatori in foto. L'immagine, infatti, è relativa alla stagione 1930-31.


Incrociando varie fotografie dell'epoca ho proceduto a identificare, con l'aiuto dell'amico Filippo Luti, ciascun singolo calciatore presente in foto. Eccoli, citati da sinistra verso destra: il primo è l'ala Pilade Luchetti, il secondo il riconoscibilissimo capitano Giuseppe Galluzzi, il terzo Renato Vignolini (uno dei "nuovi arrivati" di quella stagione), il quarto il calciatore-partigiano Bruno Neri, il quinto Vittorio Staccione, il sesto Mario Pizziolo, il settimo il riminese Antonio Moretti, l'ottavo Oliviero Serdoz, il nono Andrea Kregar, il decimo Mario Sernagiotto e l'undicesimo Giovanni Corbyons.

Nelle partite di campionato non fu mai utilizzata una formazione con questi 11 giocatori: la foto fa infatti riferimento alla partita amichevole Fiorentina-SPAL, disputata a Firenze il 21 settembre 1930; ringrazio Roberto Vinciguerra per aver fornito l'informazione relativa alla data esatta della partita.

La vicenda di questa foto è emblematica: un errore, come quello compiuto nel descrivere questa foto in molte pubblicazioni, ha fatto perdere la verità tra le pieghe del tempo, e per decenni questa foto è stata catalogata in modo scorretto. Il compito del ricercatore è quello di identificare questi errori e ricostruire la veridicità dei fatti, così da ridare ai protagonisti della storia – del calcio, e non solo – il posto che spetta loro di diritto.

11 gennaio 2022

Cenni biografici di Ilo Bianchi, giornalista sportivo (1909–1959)

Ilo Bianchi nacque il 16 settembre 1909 a Castagneto Carducci, un piccolo paese in provincia di Livorno, da Bartolomeo Bianchi e Lucrezia Fenini. Già a 19 anni, nel 1928, aveva iniziato l'attività di giornalista, e nel 1930 era entrato nella redazione del principale giornale di Livorno, Il Telegrafo, dapprima come collaboratore e poi, nel 1933, come redattore. Per il giornale si occupava di seguire le vicende delle squadre toscane impegnate nei campionati di Serie A e Serie B, concentrandosi ovviamente sulle gesta degli atleti dell'Unione Sportiva Livorno, che all'epoca alternava le sue stagioni tra la massima serie e la serie cadetta: Bianchi ne seguì spesso le trasferte sui vari campi d'Italia. Lo stile degli articoli era concreto e diretto, pur senza rinunciare a brevi brani intrisi di ispirazione poetica e letteraria, come del resto era costume in quegli anni di forte attenzione per il giornalismo sportivo, che stava vivendo un periodo di ascesa e vedeva all'opera molte grandi firme. 

Parallelamente all'attività di giornalista, Bianchi svolse i suoi studi universitari, laureandosi in Scienze Politiche. Ebbe anche particolare attenzione per la Medicina, che rimase sempre una sua passione. Non solo il calcio fu protagonista degli articoli di Bianchi: passato al Corriere del Tirreno scrisse anche di regata, di automobilismo, di ciclismo, di ippica e più avanti ancora gli capitò di seguire gli sport invernali, mettendo a servizio di varie discipline la sua poliedrica penna. Negli anni '40 Bianchi scrisse per la Gazzetta dello Sport. Dopo l'armistizio dell'8 settembre 1943 fu caporedattore del Giornale del popolo di Livorno e poi direttore di un settimanale sportivo fiorentino. Nell'estate del 1946 Renato Casalbore lo volle al neonato Tuttosport, e Bianchi si trasferì a Torino, andando ad abitare in corso Ferraris. Divenne uno degli autori di punta del giornale, seguendo le vicende sportive dell'Italia del Dopoguerra, apprezzato e temuto dai colleghi per la sua competenza e per il suo carattere caustico e indomito, simbolo di una toscanità (e più precisamente: livornesità) verace. Giorgio Tosatti di lui scrive «il caporedattore Ilo Bianchi era terribile, ci faceva tremare»; nel necrologio comparso su La Stampa, viene così definito: «Era un toscano a modo suo, non ciarliero, un po' spigoloso. Ma, già al primo contatto, il carattere buono di Ilo prendeva subito il sopravvento. L'amicizia si cementava d'incanto.» Un altro spaccato della personalità di Bianchi lo ricaviamo dal necrologio pubblicato sul Tirreno, dove si legge: «ricordava con piacere le imprese garibaldine dei servizi disagiati e tumultuosi che richiedevano dal cronista sportivo, di solito in veste di "inviato speciale", sacrifici estenuanti [...]».

Nella seconda metà degli anni '50 le sue condizioni di salute si aggravarono, e nella primavera del 1959 gli venne diagnosticata una nefrite che lo costrinse a lasciare temporaneamente il luogo di lavoro. Superato il primo attacco della malattia, tornò a Tuttosport e ne fu direttore responsabile dal 26 aprile al 25 agosto 1959, sostituendo lo scomparso "Carlin" Bergoglio. Il male però si ripresentò e Bianchi tornò nella sua Castagneto per recuperare le forze: un improvviso peggioramento lo costrinse al ricovero presso l'ospedale di Pisa, dove morì alle ore 22 del 28 agosto 1959, circondato dall'affetto dei famigliari. Lasciò la moglie, Margherita, e due figli piccoli, Fulvio e Cristiana. I funerali si tennero lunedì 31 agosto a Torino. 

Nel 1960 in sua memoria fu istituito in Piemonte il "Trofeo Ilo Bianchi", un torneo di calcio giovanile riservato alla categoria Esordienti. Stando alle informazioni da me reperite, questo torneo si disputò almeno fino all'anno 2002. Il figlio Fulvio Bianchi ha seguito le orme del padre e ha intrapreso la carriera di giornalista, iniziando a Tuttosport per poi divenire redattore di Repubblica. Chi scrive fa notare che è da considerarsi ovviamente errata la notizia, riportata da varie fonti anche di stampa, che vuole Ilo Bianchi direttore di Tuttosport nel 1962, in quanto era purtroppo già deceduto tre anni prima.

Andrea Ridolfi Testori
11 gennaio 2022

Le informazioni presenti in questo articolo possono essere utilizzate, a patto di citarne esplicitamente l'autore, Andrea Ridolfi Testori.

Fonti utilizzate:
- Annuario della stampa italiana, anni 1937 e 1957
- Necrologi pubblicati su La Stampa (30 agosto 1959) e Il Tirreno (29 agosto 1959)